Come riporta un comunicato pubblicato sulla sua pagina Facebook e come ha confermato il figlio Adam, l’artista canadese è morto serenamente all’età di 82 anni nella sua casa di Los Angeles. Le fonti ufficiali non ne fanno menzione, ma a quanto pare l’artista si è spento a causa di un cancro che, tra l’altro, lo ha costretto a realizzare il suo ultimo disco, “You Want It Darker”, uscito appena un mese fa, nel soggiorno di casa sua, impossibilitato a spostarsi a causa di lancinanti dolori alla schiena.
Il susseguirsi di tributi al grandioso artista è partito la notte scorsa e, comprensibilmente, non si è ancora spento. Mi permetto una nota: al contrario di quel che ho letto nei tantissimi necrologi celebrativi che stanno saturando il web in queste ore, Cohen non è autore di brani popolarissimi. Magari lo fosse. I brani di Dylan sono popolarissimi; quelli di Cohen non vengono canticchiati in tutto il mondo né vengono celebrati trasversalmente, ma sono apprezzati da una fetta di pubblico attenta al valore letterario che certa musica può avere, tra cui una nutrita schiera di colleghi che hanno sempre riconosciuto il loro debito nei confronti del maestro. Il termine cantautore, infatti, suona stranamente limitativo per un artista come lui, persino un po’ fuori luogo. Quello di oggi è l’addio a un grandioso uomo di parole, un’importante voce letteraria nella più ampia delle accezioni del termine, oltre che a un uomo davvero unico, come il suo percorso.
Cohen nasce al pubblico come poeta verso la metà degli anni ’50 (dopo un’infatuazione con Garcìa Lorca che lo spinse a cercare una sua voce, «un sé che lotta per la propria esistenza») e arriva “tardi” alla musica. Nel ’67, al momento della pubblicazione del suo primo disco (il meraviglioso “Songs of Leonard Cohen”), ha già 33 anni e una serie di pubblicazioni alle spalle, ma si era già reso conto da tempo che non sarebbe riuscito a campare di sole parole. Segue, dunque, il consiglio dell’amica cantante Judy Collins e si fa violenza per battere la terribile paura del palcoscenico e dare inizio alla sua carriera di musicista. Da quel momento, Cohen ha alternato pubblicazioni letterarie e discografiche fino a pochissime settimane fa. Questa foga di scrivere e comunicare forse derivava, per sua stessa ammissione, dal dolore prematuro per la perdita del padre quando era solo un bambino, che lo aveva spinto a trovare un canale di sfogo tutto suo.
La sua sensibilità complessa, il suo spirito critico, l’amore per le donne, l’impronta malinconica e depressiva dettata dalla pulsione a esprimere la grande sconfitta che tutti noi dobbiamo inevitabilmente affrontare vivendo (ma sempre «entro i ristretti confini della dignità e della bellezza»), un immaginario variegato, le meditazioni religiose imbevute di teologia ebraica (proveniva da una benestante famiglia ebraica di Montreal) ma arricchite da un forte interesse per altre dimensioni cultuali (per un periodo si avvicina a Scientology, ma, soprattutto, nel ’94 si ritira nel centro zen di Mount Baldy, dove rimane fino al ’99, facendo voto di silenzio), filtrati da un’ironia e un’intelligenza superiori – e trasmessi dalla sua voce baritonale ruvida eppure caldissima – rendono Cohen uno dei pochi davvero degni della doppia cittadinanza nelle sfere più elevate della musica e della poesia.
Non elencheremo i brani più celebri, non commenteremo i dischi più venduti e non analizzeremo le sue raccolte poetiche; va da sé, sono meritevoli di attenzione. Banalmente, oggi vi invito a cercare online le sue interviste scritte, audio o video, soprattutto quelle più recenti: scoprirete un uomo che non ha perso la brillantezza nonostante le asperità della vita, messa a dura prova per lunghi anni dalla depressione e, in ultimo, dalla malattia. In una di queste, risalente a pochissimo tempo fa, si dichiara serenamente pronto a morire, anche se ha lasciato qualcosa di incompiuto.
Tutto è relativo: 82 anni sono tanti e sono pochi. Sicuramente, però, Cohen è morto sazio di giorni.
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